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    Il corpo oggetto della colpa primaria

    By Francesco Comelli 4 anni ago

    Questo lavoro parte dalle difficoltà odierne dei terapeuti o operatori che lavorano a diretto contatto con quadri somatopsichici di difficile trattamento. La strada che ho cercato di imboccare si estende metaforicamente attraverso più cerchi concentrici, partendo degli ambiti apparentemente esterni ai pazienti, per arrivare al soggetto.

    Francesca Woodman, autoritratti

    Una prima domanda relativa a questo lavoro è a cosa serva un articolo come questo, se non per dialogare sul rapporto teoria/prassi nelle esperienze vive (le mie, quelle dei colleghi e quelle del lettore), a partire dal contatto con pazienti con disagi nel corpo e nel nutrirsi, ma con un deficit di domanda di aiuto.

    Dunque credo che un contributo come questo possa svincolarci dall’idea di affermare o enunciare delle verità, ad esempio indicare il percorso ideale dell’adolescenza o i modi in cui si deve lavorare, mettendo citazioni appropriate per ogni tipo di orientamento di ogni singola scuola, al fine invece di portare fra noi alcune incertezze, utili per pensare che le teorie non spiegano tutto in pazienti che peraltro le mettono in crisi. Questi pazienti ci obbligano pertanto a immaginare percorsi alternativi o nuovi, individualizzando il più possibile il trattamento e uscendo dai conformismi, anche psicoanalitici.

    L’implicazione che dà il lavorare con pazienti che parlano col corpo, è legata al rimando al rapporto col nostro stesso corpo: se cioè il corpo è cosi importante per i pazienti, occorre pensare al fatto che anche il nostro corpo di analisti parla. Questo pensiero parte dalla considerazione che l’operatore che si confronta con le tematiche del corpo necessita di avere un contatto con il proprio sentire somatico, avvicinandosi con rispetto al linguaggio utilizzato dalle pazienti anoressiche, entrando metaforicamente in contatto con una popolazione (le cosiddette anoressiche) con i suoi riti e le sue abitudini, purtroppo spesso segnate da un danneggiamento rivolto verso di sé.

    Un linguaggio o un rapporto col corpo troppo lontano dalle realtà somatiche del paziente ostacola la costruzione di un dispositivo che possa rispecchiare un certo grado di comunanza necessario allo stabilirsi di una intersoggettività relazionale. In questi casi è più probabile che la nostra presenza terapeutica possa comunicare un messaggio non verbale di responsività sia psichica che somatica (una sorta di “controtransfert somatico”) che può essere vista come parte del rapporto fra noi stessi e il paziente.

    D’altronde (Carlizzi, Rocchetto, Galeota, 2013) il ruolo della qualità della relazione che l’analista ha con il proprio corpo, è sollecitato dalla “risonanza corporea, dalla qualità e dalla forza delle sensazioni “perturbanti” che i pazienti (adolescenti ma non solo) suscitano nell’analista prima che egli sia in grado di attivare un processo di elaborazione (Rocchetto); l’analista può trovarsi a rispondere con il proprio corpo, a sperimentare nel corpo e attraverso il corpo emozioni contro transferali anche violenti (Galeota)”.

    In questo modo esploriamo una prima “funzione viva dello specchio” (Faucitano, 2010) che diventa terapeutica nella misura in cui prende il posto dell’ipnosi che le pazienti hanno con lo specchiarsi nella loro superficie.

    Cioè a dire che il modo in cui viviamo il problema delle pazienti ci riguarda prima come persone, proprio per svincolarci dal solo corpo: rintracciare la persona nel corpo anche seduttivamente emaciato o sgraziatamente danneggiato pare in linea con un autentico rispecchiamento in cui è presente, accanto alla paziente, la parte del terapeuta o dell’equipe che si è mossa a contatto con il o la paziente in questione. Dunque parlo di un grado di rispecchiamento di parti vive che possono o devono prendere parte nel disegno del progetto terapeutico che si va a proporre.

    In un eccessivo di bisogno di rispecchiamento accade che molte pazienti anoressiche cercano figure simil-anoressiche per la loro cura, mentre spesso all’opposto da parte degli operatori possono scattare reazioni opposte e difensive mediante un linguaggio iper psicologizzante, a fronte di una mancata simbolizzazione e di una comunicazione solo somatica.

    Ma gli operatori o le equipe che incontrano questi “corpi traumatici“, non sempre prende la forma dello studio di dispositivi rispecchianti, come non sempre l’equipe è sinonimo tout court di buone cure: è riscontro comune il fatto che in alcuni reparti sanitari ipazienti con gravi dipendenze suscitino nello staff risposte istintive controtransferali negative, secondo le quali questi pazienti meritano di soffrire un vero dolore (Guidotti 2013).

    Una frequente reazione degli operatori, che forse serve di più come loro farmaco, è quella dell’iniziare subito una terapia, conuna automaticità della prescrizione psicoterapica aprioristica, favorendo uno “stallo” in cui “i pazienti chiedono di stare ma senza procedere, chiedendo complicità nel loro disegno di non guarire” (Carassai 2013).

    Analogamente la posizione dei medici spesso muove da simili aree di automaticità terapeutica, sulla scorta del ripristino dell’appetito, secondo un conformismo terapeutico che vede solo il corpo come percorso esaustivo, ma con la rinuncia alla “scatola nera” della mente: dunque un’idea che vede o specchia la superficie del corpo ma non la persona.

    Reattivamente a tali accanimenti o automaticità terapeutiche, corrispondono altrettante automaticità dell pazienti: l’abuso degli psicofarmaci prescritti dallo psichiatra, dei lassativi e dei diuretici, la falsificazione o il gioco con gli strumenti di misurazione e di controllo dei parametri fisiologici e corporei, con le etichette diagnostiche, che possono stimolare un distacco, un conflitto e un disinvestimento negli operatori, anche se come curanti dobbiamo ricordare l’importanza della difesa dipendente, in opposizione al senso di svalorizzazione che potrebbe rendere difficile l’investimento epistemico e affettivo verso i pazienti.

    I pazienti sembrano quindi adattarsi difensivamente ai terapeuti ed alle loro scuole: questi pazienti con deficit di simbolizzazione e di domanda, possono essere “esperti” in adattamenti o costretti ad una concretizzazione della propria esperienza interna; ma incontriamo soprattutto pazienti che iperconoscono i linguaggi analitici come elementi concreti, i quali diventano rapidamente parte delle proprie difese dalle terapie stesse che vengono sentite come atteggiamenti coloniali e acculturanti.

    D’altronde va detto che di fronte all’“altro”, sia esso un parente o un terapeuta, portatori di un potenziale affetto, la persona anoressica deve poter controllare i propri confini mediante l ‘unico strumento di cui dispone, ossia la chiusura del canale alimentare, per arginare la relazione e le interazioni da cui non riesce a difendersi o a dialogare altrimenti.

    Il corpo di conseguenza diventa un mezzo, finalizzato a comunicare un disagio mentale non esperibile altrimenti.

    I pazienti gravi contemporanei con forte impatto somatico associano spesso il tema della psicoanalisi al terrore della relazione, della dipendenza dall’analista, al terrore dell’essere lasciati soli o dell’analista che andrebbe “troppo nel profondo”, penserebbe troppo etc etc.

    Nel periodo dell’oggetto da consumare e dell’iperconnessione fra tutti credo che anche la psicoanalisi venga vista come un oggetto di consumo, reso conformistico, con il rischio di un non capirsi fra terapeuti analitici disponibili e pazienti consumisti di terapeuti.

    Con tali presupposti le difficoltà dei terapeuti possono rimandare ad un grande carico emotivo interno che necessita di essere trattato; dunque la fenomenologia della vita psichica dell’analista diventa centrale nei concetti di controtransfert (Jacobs 1999), di enactment (Ponsi 2012) e di transfert dell’analista verso il paziente.

    Questi concetti permettono di riflettere sul vertice della mente dell’analista, il quale può vivere suoi atti, agiti o pensati anche a seguito della condizione di blocco del registro lingnuistico simbolico che questi pazienti presentano.

    Ma alcuni elementi possono francamente discostare un motivato terapeuta e i pazienti con un corpo martirizzato a partire dallo sconcerto per il fascino delle pratiche autodistruttive, ossia l’assenza di una protezione per il proprio corpo.

    L’interrogazione sul fascino del male non può prescindere da una parentesi sociale che può costituire il cerchio più esterno al nostro discorso, per poi successivamente passare al “cerchio” dell’equipe.

    Category:
      DISAGI
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